
STORIA DELLA FOTOGRAFIA
Parlare di una storia della fotografia è quanto mai difficile. Le prime fotografie realizzate infatti possono sembrare ai nostri occhi più vicine ad un disegno mal riuscito che non l’inizio di una nuova forma di comunicazione fra gli uomini.
Scopo della fotografia è un delicato compromesso tra esatta rappresentazione della realtà, così come appare ai nostri occhi e interpretazione artistica del fatto che vuole essere riprodotto. Quando ancora le tecniche di riproduzione non erano perfezionate, è chiaro che la creatività lasciava il posto alla perfezione tecnica così come ad un giovane che si avvicina all’arte pittorica è in primo luogo richiesta la capacità di riprodurre oggetti così come appaiono, e in secondo luogo la capacità interpretativa.
Inizialmente tanto più una fotografia era simile alla realtà, tanto più questa aveva valore. Ma è giusto porsi, per così lungo tempo ed in modo così assiduo, il problema di “specchiare” attraverso la pittura prima, la fotografia, il cinema e la televisione poi, la realtà e la natura così come sono? Non ci troviamo forse di fronte ad un problema che, proprio nella sua formulazione, può essere considerato un difetto?
Ebbene, non è forse vero che quello nel quale ci muoviamo è un Mondo “tridimensionale”, cioè che vive in virtù delle sue tre dimensioni, e non due, le sole che tutte le forme di espressione nominate precedentemente sono in grado di rappresentare? Inoltre, anche la scoperta della fotografia a colori può essere considerata, da questo punto di vista, una vittoria relativa. Dovremmo, infatti, essere in grado di riprodurre e registrare i cosiddetti colori “neutrali”. Ma i colori neutrali sono quelli che selezionò Newton provenienti dalla luce del sole; ed è inoltre noto che tutte le cose, non fornite di luce propria, non possiedono un loro colore naturale, ma sono quello che loro viene attribuito dalla luce del sole, o ancora da una sorgente luminosa artificiale. Anche in questo caso quindi è forse l’indirizzo assunto dalle domande e non tanto queste nella loro essenza a dover subire qualche modifica.
Le tappe fondamentali della storia della fotografia.
E’ nel 1553 che G.B. della Porta, in base alle scoperte di Leonardo Da Vinci, rende noto il principio della camera oscura e nel 1568 Daniele Barbaro riesce ad ottenere più nitida delle precedenti aggiungendo una lente al foto della camera oscura. Questa inizialmente era usata soprattutto da pittori che, posti all’interno della costruzione, attraverso un foro stenopeico (dal greco “stenos” = stretto) avevano la possibilità di disegnare i contorni dell’oggetto osservato.
Intanto nel 1566 G. Fabricius osserva per primo l’annerimento del cloruro d’argento esposto all’aria. Nel 1722 Le Bon compie una scoperta fondamentale, sia per la fotografia che per il cinema e la televisione che seguiranno: si accorge che per le formazioni di tutti i colori ne sono necessari solo tre (rosso, giallo e blu) e non sette, che erano quelli scomposti da Newton.
Cinque anni dopo J.H. Schultze determina per la prima volta la sensibilità alla luce dei sali d’argento, e nel 1801 Thomas Young enuncia la teoria della sensibilità tricromatica dell’occhio umano: “… poiché è impossibile concepire che ogni punto sensibile della retina contenga una infinità di particelle capaci ciascuna di vibrare all’unisono con una ondulazione luminosa determinata, è necessario supporre questo numero limitato a tre colori principali, rosso, giallo e blu…”
Nel 1802 l’inglese T. Wedgwood ottiene delle stampe a contatto non permanenti su pelli sensibilizzate con nitrato d’argento. Nel 1803, attraverso degli esperimenti riesce ad osservare la colorazione della carta alla resina di ghiaccio alla luce. Nel 1810 T.J. Nièpce cominciò a lavorare sui principi chimici scoperti dai suoi predecessori, fino ad arrivare nel 1822 alla realizzazione della prima fotografia. Questa era una stampa eliografica ottenuta su peltro sensibilizzato con bitume e raffigurava una tavola imbandita. L’eliografia era una riproduzione per contatto, in negativo, di disegni, mediante l’azione della luce. Il disegno eseguito in nero su di una carta trasparente (lucida), viene interposto tra la luce e una superficie trattata con sostanze sensibilizzanti, sulla quale dopo lo sviluppo (in vapori di ammoniaca), apparirà la copia del disegno con i bianchi ed i neri invertiti rispetto all’originale. Nel 1835 J. Mandé Daguerre perfezionò un procedimento consistente nella sensibilizzazione di una lastra di rame con ioduro d’argento e lo sviluppo con vapori di mercurio. Nello stesso anno l’inglese W.H. Fox Talbot produsse una carta sensibilizzata con cloruro d’argento, con la quale realizza fotografie annerite direttamente dalla luce, ma che non sviluppano l’immagine latente. La “dagherrotipia” consiste nella sensibilizzazione medianti vapori di iodio, di un sottile strato d’argento applicato con elettrolisi su una lastra di rame, e nello sviluppo dell’immagine latente, prodotta dopo l’esposizione alla luce, mediante vapori di mercurio e successivo fissaggio con un’altra soluzione.
John Herschel, in una lettera inviata a Fox Tlabot, nel 1839, usa per la prima volta la parola “fotografia”. In seguito al procedimento della dagherrotipia, Herschel riprende anche le esperienze di Seebeck del 1810, fotografando nuovamente lo spettro solare su un tipo di carta preparata secondo il procedimento di Talbot (nitrato d’argento e cloruro d’ammonio). Egli dimostra che, alla luce diretta, il bromuro d’argento si impressiona assumendo delle tinte che corrispondono ai colori di essa e che invece lo ioduro d’argento assume delle tinte complementari a quelle agenti.
Tutto questo procedimento ha però una durata molto breve e la luce necessaria per l’osservazione di questo fenomeno finisce col compromettere il risultato. Il processo al bitume, iniziato da Nièpce si basa sul fatto che questa sostanza diviene insolubile nei suoi solventi abituali, dopo essere stata esposta alla luce. Applicando questo principio i suoi impieghi sono stati estesi a vari campi ed in particolare alle riproduzioni fotomeccaniche che esistono ancora oggi.
La “dagherrotipia”, con il suo originale unico e positivo su lastre di rame, che non può essere riprodotto fotograficamente, ha rappresentato un’epoca conclusasi in se stessa.
Con Talbot (1800-1877) ha avuto inizio il processo fotografico vero e proprio, che si basa sugli alogenuri d’argento stesi su supporti di carta, di vetro e di pellicola, per l’ottenimento di negativi e positivi mediante l’esposizione alla luce e successivo sviluppo dell’immagine latente in soluzioni contenenti appropriati agenti rivelatori.
Talbot chiamò questo procedimento “calotipia”. Specifichiamo che un’immagine si dice negativa quando le sue gradazioni di grigio e di colore sono inverse a quelle del soggetto. Inizialmente la calotipia non ebbe molto successo perché non se ne capì subito l’importanza; inoltre Talbot aveva brevettato la sua invenzione, mentre il procedimento di Daguerre era stato acquistato dal Governo Francese e quindi era molto più diffuso.
Nel 1840 J.W. Draper fotografa per la prima volta la Luna su una lastra dagherriniana. Nel 1845 un Italiano di nome Zantedeschi sostiene di: “… aver ottenuto delle esperienze fotografiche da lui instituite fin dai primordi delle scoperte di Daguerre… immagini fotocromatiche dove erano molto ben visibili il rosso, il verde e il violetto…”
Nel 1847 viene introdotta da Desiré Blanquart Evrard un nuovo tipo di carta detta “carta albumina” ottenuta stendendo uno strato di bianco d’uovo e aveva lo scopo di far ottenere delle copie positive.
Dopo Talbot fu la volta di Scott Archer che superò sia la calotipia di Talbot, che la dagherrotipia. Egli infatti introdusse il procedimento al collodio umido (1851). Sempre nel 1851 Talbot però riuscì a fotografare, con l’ausilio di un lampo elettrico, un foglio del “Times” fissato su una ruota in movimento. Nel 1855 invece Relandin brevettò l’otturatore a tendina montato sull’obiettivo. Nel 1856 G.F. Tournachon realizza per la prima volta una fotografia aerea volando su di un pallone.
Nel 1865 Harry Collen intuisce per primo l’idea di usare tre sostanze fondamentali nelle emulsioni fotografiche a colori. La sua tesi verrà ripresa nel 1935 da Godowsky e Mannes, che brevettarono la Kodachrome. Nel 1868 Louis Ducos du Hauron pubblica “I colori in fotografia: soluzione del problema”, dove descrive in modo eccezionale la sintesi sottrattiva per la riproduzione tricromica, che consente di realizzare immagini fotografiche a colori naturali, indiretti, ma stabili e durevoli. Si arriva così nel 1865 alla fabbricazione della prima celluloide o pellicola.
Nel 1873-1877 Eadweard Muybridge prova attraverso delle fotografie che le quattro zampe di un cavallo al galoppo si staccan0 simultaneamente da terra. Nasce e trionfa la fotografia istantanea e nel 1878 Bennett riesce a fare istantanee a 1/25 di secondo.
Nel 1879 il procedimento di Archer al collodio umido fu abbandonato per quello dell’emulsione al bromuro molto più pratico e veloce. Era inoltre possibile preparare la lastra molto tempo prima che questa fosse usata. Proprio così nacquero le prime fabbriche di lastre sensibili con George Eastmann, che nel 1880 inventò la prima macchina per stendere sul vetro lo strato di gelatina sensibile. Nel 1888 vende i primi apparecchi fotografici attrezzati per 100 pose e nel 1891 realizza la Kodak, cioè una macchina fotografica che poteva essere caricata anche alla luce del giorno.
Inizia così l’epoca del fotografo che può anche non essere un esperto di chimica, di meccanica, etc. Un altro nome importante nella storia della fotografia, soprattutto per quella a colori, è Gabriel Lippmann che nel 1891 rende noto il suo procedimento interferenziale che permette l’assunzione di fotografie naturali a colori diretti e inalterabili, eliminando l’ausilio di filtri e coloranti. E’ un procedimento fondato sulla teoria della scomposizione della luce dello spettro. Ma il suo procedimento presentava un inconveniente, dal momento che per attuarlo era necessario avere delle conoscenze da scienziati. Demole però, nel 1892, lo semplificherà introducendo l’uso della gelatina bicromatica che ha la proprietà di indurirsi alla luce e di gonfiarsi nell’acqua. Le immagini, comunque possono essere viste solo immerse nell’acqua e richiedono un’esposizione molto lunga.
Nel 1901 Eichengrun scopre i supporti pellicolari ininfiammabili in acetato di cellulosa. Nel 1904 Konig e Homolka invece scoprono i sensibilizzatori cromatici e pancromatici che estendono la sensibilità dell’emulsione a tutti i colori dello spettro. Nel 1916 l’Agfa brevetta un suo procedimento che renderà noto solo nel 1932, per la sintesi additiva della fotografia a colori su lastra, col nome di “agfacolor”.